LA CORTE DI APPELLO Ha emesso la seguente ordinanza. Sciogliendo la riserva in ordine all'eccezione di illegittimita' costituzionale dell'art. 428 c.p.p. come sostituito dall'art. 4, comma 2 della legge 20 febbraio 2006, n. 46, nella parte in cui esclude la possibilita' per il pubblico ministero di proporre appello avverso le sentenze di non doversi procedere pronunziate per qualsiasi causa dal g.u.p. e dell'art. 10 della stessa legge, nella parte in cui sancisce l'applicazione della norma novellata anche ai procedimenti in corso, sollevata dal procuratore generale nel procedimento penale n. 91/2005 a carico di Leonardi Salvatore Francesco + 13 in relazione agli artt. 97 e 112 della Costituzione; Sentito il difensore dell'imputato; O s s e r v a Con sentenza emessa il 14 luglio 2004, il G.u.p. del tribunale di Messina dichiarava non doversi procedere nei confronti di Leonardi Salvatore, D'Alia Giampiero, Alibrandi Pietro, Scoglio Gianfranco, Ragno Luigi, Cardile Giuseppe, Rizzo Salvatore, Barbera Salvatore, Santalco Giuseppe, Borda Bossana Attilio, Beninati Maria, Ribaudo Filippo, Vermiglio Carlo e Barone Ferdinando in ordine al reato di abuso loro rispettivamente contestato, ritenendo che il fatto non costituisse reato. La condotta criminosa veniva individuata nell'avere gli imputati in concorso tra loro e con Borda Bossana - privato determinatore - intenzionalmente procurato a quest'ultimo un ingiusto vantaggio economico, conferendogli l'incarico dirigenziale relativo alla struttura dello staff D senza che fosse accertato il possesso dei requisiti previsti per l'assunzione nelle pubbliche amministrazioni, nelle rispettive qualita' e con l'adozione degli atti di competenza specifica e cioe': Beninati quale dirigente della ripartizione personale, che avallava una interpretazione di parte dell'art. 58 della legge regionale 18 maggio 1996, n. 33 del gruppo dei giornalisti degli uffici stampa, facendola passare per circolare assessoriale; D'Alia quale assessore al personale proponente; Ribaudo quale segretario comunale che apponeva il visto di legittimita'; Leonardi, Vermiglio, Barone, Scoglio, Ragno, Cardile e Rizzo quali componenti della giunta municipale che approvava il regolamento di organizzazione sull'ordinamento degli uffici e dei servizi del Comune di Messina, il cui art. 52, comma 13 era formulato direttamente per favorire Borda Bossana; Leonardi, D'Alia, Alibrandi, Scoglio, Ragno, Cardile, Rizzo, Barbera e Santalco che approvavano proponente D'Alia - e segretario comunale Ribaudo - la delibera n. 396 con cui veniva instaurato il rapporto di lavoro pubblico a tempo indeterminato con Borda Bossana Attilio, in violazione dell'art. 58 della legge della Regione Sicilia n. 33 del 18 maggio 1996 che prevedeva invece la procedura concorsuale per la copertura dei posti negli uffici stampa degli enti locali. Argomentava il giudice che - fermi restando in punto di fatto i comportamenti oggetto dell'imputazione - mancassero agli atti elementi sufficienti a sostenere l'accusa a dibattimento in punto di elemento soggettivo del reato cosi' come prefigurato dalla legge n. 234/1997. In particolare lasciavano ipotizzare l'assenza di una intenzionalita' di favorire il Borda Bossana con la illegittima attivita', la considerazione che quest'ultimo non avesse una caratura politica, ovvero rapporti qualificati con i dirigenti dell'ente (anzi il rapporto lavorativo tra il predetto ed il comune si era sviluppato nell'arco degli anni nonostante il succedersi di amministratori diversi), che non fossero emersi elementi circa interventi del Borda Bossana per determinare i rappresentanti dell'ente alla sua assunzione, in violazione della normativa vigente e che invece doveva ritenersi acquisita in capo agli amministratori stessi la consapevolezza che il mancato rinnovamento dell'incarico al predetto, avrebbe esposto l'ente ad un'azione di risarcimento danni. Avverso tale decisione interponevano appello Borda Bossana Attilio e Ribaudo Filippo eccependo che il g.u.p. avrebbe dovuto proscioglierli per insussistenza del fatto, in considerazione del fatto che il problema dell'applicazione del contratto collettivo di categoria e' posto dal comma 1 dell'art. 58 della legge regionale 18 maggio 1996, n. 33, che rende applicabile anche l'art. 3 secondo cui le assunzioni a termine restano disciplinate dalla legge n. 230/1962: in sostanza gli appellanti hanno contestato che la procedura concorsuale fosse imposta per gli uffici stampa gia' istituiti, ritenendo che essa rimanesse circoscritta ai soli uffici da istituire, non avendo altrimenti significato il salvataggio delle condizioni piu' favorevoli nel caso di uffici gia' istituiti. Anche il Procuratore della Repubblica presso il tribunale interponeva appello eccependo che proprio le argomentazioni sviluppate dal primo giudice nella parte in cui aveva fatto riferimento a soluzioni alternative nella lettura dei comportamenti ascritti - avrebbero imposto l'approfondimento, ovvero l'integrazione dibattimentale. Contestava la circostanza ritenuta dal giudice che non vi fossero in atti elementi a sostegno delle pressioni del Borda per ottenere il conferimento dell'incarico, risultando queste dalle dichiarazioni della denunziante Fortino e dalle stesse ammissioni del Ribaudo. Aggiungeva il Procuratore della Repubblica che proprio il pregresso trattamento di favore accordato al Borda Bossana inducesse a ritenere anche sul piano logico che egli fosse effettivamente raccomandato politicamente ed in grado di condizionare i funzionari comunali. Fissato il giudizio di appello, all'udienza del 22 marzo 2006 il procuratore generale, preso atto dell'entrata in vigore della legge n. 46/2006 e delle limitazioni alla facolta' di appello derivanti dalla nuova formulazione dell'art. 428 c.p.p., ha sollevato la questione di legittimita' costituzionale di detta norma nei termini esposti. Orbene, rileva questa Corte che l'art. 428 c.p.p. come novellato dall'art. 4 legge n. 46/2006 preclude la possibilita' di proporre appello avverso le sentenze di non doversi procedere adottate con qualsiasi formula dal g.u.p., con conseguente obbligo del giudice d'appello adito di dichiarare inammissibile il gravame. Preliminarmente ritiene la Corte che la questione proposta dal procuratore generale sia rilevante nel presente giudizio, in quanto la legge, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 22 febbraio 2006 ed entrata in vigore il 9 marzo 2006, prescrive all'art. 10 che le nuove norme trovino applicazione anche ai procedimenti in corso, disponendo che l'atto d'appello proposto prima dell'entrata in vigore della nuova normativa sia dichiarato inammissibile con ordinanza non impugnabile. Sussiste altresi' la necessita' che la questione sia risolta in via pregiudiziale poiche', per effetto della novella dovrebbe essere adottata nel processo in corso ordinanza non impugnabile di inammissibilita' del gravame. Al riguardo va ribadito che compito di questa Corte di appello non e' quello di esprimere un giudizio sulla fondatezza della questione di legittimita' costituzionale, bensi' soltanto quello di valutare se i dubbi di illegittimita' costituzionale prospettati non siano «manifestamente infondati», non siano cioe' chiaramente insussistenti ovvero siano soltanto apparenti. Al di fuori di questa ipotesi la questione deve essere dichiarata «non manifestamente infondata» e va rimessa alla Corte costituzionale, alla quale compete la decisione sulla legittimita' costituzionale delle leggi e degli altri atti aventi forza di legge e quindi di stabilire se i dubbi di illegittimita' costituzionale siano fondati o meno e se siano superabili con il richiamo ad altri principi di rango costituzionale non considerati da chi la questione ha sollevato. Fatta questa premessa, reputa la Corte che la questione di illegittimita' costituzionale dell'art. 10 della legge 20 febbraio 2006, n. 46, che prevede l'applicazione della norma novellata anche «ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della medesima», debba ritenersi manifestamente infondata con riferimento alla prospettata violazione dell'art. 97 Costituzione. In proposito la Corte costituzionale ha gia' avuto modo di affermare che «il principio del buon andamento della pubblica amministrazione - pur concernendo anche gli organi dell'amministrazione della giustizia - si riferisce esclusivamente alle leggi relative all'ordinamento degli uffici giudiziari ed al loro funzionamento sotto l'aspetto amministrativo, risultando invece di per se' estraneo all'esercizio della funzione giurisdizionale» (v. sent. C.c. 26 marzo/1° aprile 2003 n. 110 e l'ordinanza n. 370/2002 in essa richiamata). Viceversa, va ritenuta non manifestamente infondata la questione di costituzionalita' del nuovo art. 428 c.p.p. con riferimento alla dedotta violazione del principio di obbligatorieta' dell'azione penale sancito dall'art. 112 Cost. Questo Collegio non ignora che in proposito la Corte costituzionale, dopo avere affermato con la sentenza n. 177/1971 che «il potere di impugnazione del pubblico ministero costituisce una estrinsecazione ed un aspetto dell'esercizio dell'azione penale», ha modificato il proprio orientamento, ritenendo che siffatto potere non costituisce manifestazione dei poteri inerenti l'esercizio dell'azione penale (Sent. C.c. n. 206/1997; Sent. C.c. n. 110/2003). A tale conclusione i Giudici delle leggi sono pervenuti attraverso l'esegesi stessa dei lavori preparatori della Carta costituzionale (resoconti delle sedute della Commissione c.d. dei settantacinque e resoconti delle sedute dell'Assemblea costituente), nei quali non e' dato rinvenire la benche' minima traccia di un collegamento tra obbligo di esercitare l'azione penale e potere di impugnazione del pubblico ministero. Proseguendo in questo indirizzo la Corte costituzionale ha anche evidenziato che tutto il sistema delle impugnazioni penali, in particolare dell'appello, tanto sotto il codice abrogato quanto sotto quello vigente, depone nel senso che il potere del pubblico ministero di proporre appello avverso la sentenza di primo grado, anche se in certe situazioni ne possa apparire istituzionalmente doveroso l'esercizio, non e' riconducibile all'obbligo di esercitare l'azione penale, come comprovato dai due istituti dell'acquiescenza alla sentenza e della rinuncia al gravame senza obbligo di motivazione, che mal si concilierebbero con una costruzione dell'impugnazione quale estrinsecazione del principio dell'obbligatorieta' dell'azione penale. Cio' che in questa sede viene auspicato e' che la Corte costituzionale riveda la propria giurisprudenza sul punto. Le prerogative e le attribuzioni istituzionali del pubblico ministero sono definite e precisate negli artt. 73 e 74 o.g. e sono tenute presenti e piu' o meno espressamente richiamate dagli artt. 102, 107, 108 e 112 della Carta costituzionale in materia di giustizia. E' indubbio che quando l'art. 112 Cost. enuncia che il pubblico ministero ha l'obbligo di esercitare l'azione penale faccia diretto riferimento alle funzioni a tale Organo attribuite dai richiamati artt. 73 e 74 o.g. Alla stregua di tali norme il pubblico ministero ha, tra gli altri doveri istituzionali, quelli di vegliare all'osservanza delle leggi, di assicurare la pronta e regolare amministrazione della giustizia, di promuovere la repressione dei reati. Proprio in considerazione di tali precipue funzioni l'art. 112 Cost. gli fa obbligo di esercitare l'azione penale in piena autonomia ed indipendenza da ogni altro potere (art. 104 Cost.). Nel definire tale obbligo costituzionale l'art. 74 o.g. recita che il pubblico ministero inizia ed esercita l'azione penale. E' chiaro che tale norma opera una evidente distinzione tra inizio ed esercizio dell'azione penale ed e' altrettanto chiaro che il primo termine si riferisce al momento dell'avvio dell'azione penale mentre il secondo attiene piu' propriamente al suo sviluppo durante l'intero iter processuale. Pertanto, poiche' lo stesso art. 112 Cost., cui l'art. 74 o.g. e' direttamente collegato, obbliga il pubblico ministero ad «esercitare» l'azione penale, e' quantomeno opinabile che tale dovere costituzionale sia limitato soltanto alla fase dell'avvio del procedimento e non investa invece tutto il processo, connotando e qualificando l'attivita' del pubblico ministero sino all'accertamento definitivo della verita' o comunque sino alla riparazione dell'ordine giuridico violato. Cio' e' tanto vero che il codice di rito prevede vari momenti di controllo afferenti l'esercizio dell'azione penale: basti accennare alle richieste di archiviazione non accolte o all'imputazione coatta ovvero al decreto che dispone il giudizio emesso dal giudice dell'udienza preliminare pure a fronte di una richiesta di proscioglimento avanzata dallo stesso pubblico ministero. Ne deriva che, sebbene tale potere-dovere debba essere esercitato nel rispetto delle regole dettate dalle leggi processuali, esso, appunto perche' promana direttamente dalla Costituzione e costituisce un'estensione dell'obbligo di repressione dei reati e del dovere di vigilanza sulla pronta e regolare amministrazione della Giustizia, intesa come valore costituzionalmente garantito, non puo' essere limitato e compresso secondo l'arbitrio del Legislatore ordinario. Al riguardo non e' fuor di luogo ricordare che la Corte costituzionale, nell'affermare la legittimita' costituzionale dell'art. 443, comma terzo c.p.p., che preclude al pubblico ministero di appellare le sentenze di condanna pronunciate con il rito abbreviato, ha motivato il rigetto dell'eccezione di illegittimita' di tale norma affermando che comunque «la sentenza di condanna costituisce la realizzazione della pretesa punitiva fatta valere nel processo attraverso l'azione penale» (Sent. C.c. n. 363/1991). Ne deriva la logica conseguenza che se la «pretesa punitiva» e' stata disattesa da una sentenza di proscioglimento o ancor prima da una sentenza di non doversi procedere, contrastano con i principi costituzionali le norme che impediscono al pubblico ministero di esercitare le sue funzioni di controllo anche con lo strumento dell'appello.